Violenza e omicidi: il coraggio di guardare

Violenza e omicidi: il coraggio di guardare

Violenza e omicidi: il coraggio di guardare

Riflessioni, le più profonde, in mezzo al caos  della cronaca nera.

Violenze e omicidi, non c’è mai tregua. Arriva una telefonata, un messaggio, una notifica al computer. “Trovato morto bambino”, “Donna ritrovata senza vita”, “Ex compagno accoltellato”. Sono tante e non ci sconvolgono quasi più. La morte ci passa accanto, noi sussultiamo e poi ce ne dimentichiamo completamente, fino al nuovo aggiornamento.

Tanti gli articoli che leggiamo e scriviamo quando fatti terribili come questi vengono resi noti. Ogni volta è un turbinio di: ricerche, telefonate, verifiche, fiumi di parole che vengono scritte per dare al lettore quanti più dettagli.

C’è un pensiero che ruota nella mia testa da tempo: quanto è difficile essere le persone che vedono le vittime? Parlo, nello specifico, di quelle persone che si trovano a dover guardare, spesso anche descrivere, i segni di violenza su un corpo. Gli inquirenti, per l’appunto.

Oggi non faccio altro che chiedermi cos’abbiano provato davanti a Mehmed, il bambino di Milano ucciso di botte, o Leonardo, il piccolo di Novara anch’egli ucciso, pare, da chi avrebbe dovuto proteggerlo per citare gli ultimi protagonisti della spietata cronaca nazionale.

La notizia passa su tutti i canali, rimaniamo indignati, condanniamo il colpevole e voltiamo pagina. Ma agli inquirenti chi ci pensa?

Ogni volta che un caso di cronaca sconvolge l’opinione pubblica penso a quegli uomini e a quelle donne che affrontano, perché è il loro lavoro, la parte più  dura: guardare alle prove, arrivare in fondo alla verità. Penso a una madre o a un padre che si trova davanti un bambino con ematomi su tutto il corpo. Penso a esseri umani che devono constatare la furia di altri esseri umani e rimanere razionali. 

I lividi, i graffi, le bruciature, che effetto fanno nella mente di chi guarda? Quale reazione scatena la visione di un corpicino martoriato? Me lo chiedo spesso ultimamente. Mi domando come un inquirente dopo una giornata trascorsa ad aver analizzato tutto questo dolore riesca a cancellare tutto. Lo fa davvero? Oppure porta tutto dentro di sé? 

Sono consapevole che molti risponderanno “è il loro lavoro”, ma non è vero. Sono sicura che quando hanno deciso di fare questo lavoro, sapevano che non sarebbe stata facile. Come lo sono del fatto che non si sarebbero aspettati di contare i pezzi di un cadavere in un campo o le bruciature sul corpo di un bambino senza vita.

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